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Per quanto possa essere diffusa, la parola “amore” rimane oscura nel suo significato più profondo. Domandare ad una persona post adolescente se è innamorata può essere vissuto come una provocazione. Probabilmente dopo un attimo di spaesamento, arriverà, nei casi migliori, una risposta simile a questa: “Ci vogliamo molto bene”, o “C’è un grande affetto fra noi”, o ancora, “Certo alla nostra età non si può parlare di amore come ai primi tempi”.
Quindi alla parola “amore” viene di solito accostato il concetto di passione, una sorta di carica energetica, che si immagina possa evaporare nel tempo, lasciando la stabilità dell’affetto. In quanto legato alla passione, all’infatuazione, all’attrazione, “amore” non sarebbe la parola più indicata per esprimere la libertà di una scelta, ma poiché nei disturbi d’ansia e di panico il confine fra essere innamorato ed essere dipendente, diviene particolarmente sottile, proporrei, per un momento, di chiamare con “amore” il senso di libera scelta che ci spinge verso l’altro e con “necessità” il senso di dipendenza dalla persona a cui siamo legati. In misura maggiore o minore questo dilemma accomuna un po’ tutti, forse perché, da quando nasciamo, fatichiamo a distinguere nell’accudimento o in quella mitica tetta o biberon che sia, la quota relativa ai sentimenti dalla quota relativa alla sopravvivenza. Nelle persone con un disturbo di panico questo dilemma si esaspera e il pensiero se hanno realmente scelto il loro partner, e quindi, si potrebbe dire, lo amano, o se hanno bisogno di lui per essere aiutati a gestire le proprie ansie, può divenire tormentosa.
Un’anziana signora mi confidava dolorosamente: “Vede dottore, mi vergogno a dirlo, ma se penso alla possibile morte di mio marito non so se prevale il dolore per la perdita o il senso di disperazione per non potere fare più affidamento sulla persona dalla quale dipendo massimamente.” Questa persona distingueva, in maniera molto acuta, la fisiologica tristezza per la separazione, dalla meno fisiologica disperazione per il pensiero di non avere gli strumenti per cavarsela da soli.
Eppure non dobbiamo pensare che la dipendenza sia un sentimento unilaterale, la maggior parte delle volte si creano dei complicati incastri, che una geniale persona descriveva magistralmente: “Non so se sono io che tiranneggio lui o se lui, venendo incontro alle mie attuali esigenze, accumula crediti che poi vorrà riscuotere. Non è facile capire chi tiene in pugno l’altro”. In un vecchio film del 2002 “Liberi“, di Gianluca Maria Tavarelli, uno dei protagonisti, Vince (Elio Germano), si prodiga per aiutare Genny (Nicole Grimaudo): a superare le sue paure di andare in treno, in autobus, nelle discoteche. Vince dimostra così a Genny il suo amore, o forse sarebbe meglio dire, la sua dedizione, ma nello stesso tempo ne esaspera la dipendenza e questo sembra un buon antidoto contro la gelosia. Man mano che Genny sta meglio comincia ad emanciparsi e a diventare più libera.
Emanciparsi significa non appartenere più rigidamente, la relazione deve essere continuamente rinegoziata, operazione faticosa e ansiogena, per ognuno di noi, che si cerca di evitare con un rapporto di mutuo soccorso, che “funziona” fin quando perdura il bisogno di alleanza limitante da parte di entrambi i partners o fin quando il disturbo, nonostante la sofferenza, funge, in qualche modo, da rifugio esistenziale. Quindi la guarigione dai sintomi del panico può comportare l’inizio di un’altra sofferenza, che non si può evitare: il senso di responsabilità per la propria esistenza e questo può tenere i pazienti lontani dalla cura ma dovrebbe anche suggerire agli psicoterapeuti di non “infierire”con farmaci o con altre, per quanto utili modalità, solo sull’aspetto sintomatico.
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