Che cosa significa allenare i San Antonio Spurs?
«Vuol dire appartenere a un’organizzazione che ha fissato uno standard di lavoro e che opera con classe. È un privilegio far parte di questo programma. Siamo il vero centro di potere della Nba? È una leggenda. Ma siamo seri e capaci, questo sì».
Disciplina o «less is more»: quale concetto si adatta meglio alla sua filosofia?
«Entrambi. Senza la disciplina non si va da nessuna parte, e non solo nel basket. “Less is more” è invece un formidabile mantra: la maggior parte della gente accumula troppo di tutto, dal talento alle ansie. Però il “meno” funziona meglio del “più”».
Lei è ormai uno dei grandi coach della storia. Ma a suo giudizio, chi è il migliore?
«Pat Riley è stato straordinario, per consistenza e capacità nella conduzione: era quasi incontrastabile».
C’è rivalità tra allenatori?
«Ci sono piuttosto rispetto e complicità: sappiamo quanto sia duro il mestiere, tra di noi c’è empatia e condividiamo i successi di ogni collega».
Padre serbo, madre croata: Gregg Popovich condivide entrambe le identità?
«Sì. C’è differenza tra serbi e croati, ma l’America, per due emigranti come i miei genitori, è servita ad annullare le diversità: io sono cresciuto in questo spirito».
Che è poi quello della vecchia Jugoslavia...
«Sì, nella mia famiglia c’è stata più Jugoslavia, che Serbia o Croazia».
Quello spirito che cosa le ha dato sul piano personale e su quello del lavoro?
«Prima di tutto l’orgoglio, poi la disciplina per fare le cose giuste e per lavorare sodo».
Dal 1999 al 2014: cinque titoli, qualche passaggio a vuoto ma una sostanziale continuità ad alto livello. Qual è il segreto della longevità degli Spurs di Popovich?
«La fortuna ha il suo peso. David Robinson stava concludendo il suo ciclo, ma scovammo Tim Duncan, che fece pure in tempo a giocare assieme all’Ammiraglio: ecco la base di tutto. Aggiungo le sinergie tra proprietà, general manager e staff tecnico: pochi club hanno questa armonia, anzi altrove ci sono liti e paranoie».
Due titoli di fila vi mancano: proverete a sfatare la tradizione.
«Certo. Punteremo a ripeterci, ma se non ce la faremo che male sarà? È già così difficile vincere un titolo... E poi la vita deve andare avanti: c’è anche altro a cui badare e se non lo capisci, hai un problema».
Qual è il miglior quintetto di sempre degli Spurs?
«Robinson, Duncan, Elliot - Leonard è ancora troppo giovane, ma nel tempo potrà diventare l’ala perfetta -, quindi Ginobili e Parker».
Può scegliere tra Jordan, James o Bryant: chi prende?
«Michael Jordan».
Quanto più forte può diventare Marco Belinelli?
«Marco è un ottimo passatore ed è un grande attaccante che sta imparando a selezionare i tiri. La sua crescita sarà però basata sulla difesa e su una ancora maggiore responsabilità verso la squadra».
Che cosa pensa degli altri italiani nella Nba, Gallinari, Bargnani e Datome?
«A me piace in particolare Gallinari, per il carattere e per la mentalità. Belinelli è più completo, ma Danilo è un combattente che non si ferma davanti a nulla».
Ettore Messina ora è uno dei suoi vice: cosa gli chiede?
«L’ho voluto perché può rendermi migliore: Ettore è un tecnico raffinato, che capisce gli aspetti mentali e le sfumature del basket. La sua personalità e la sua intelligenza sono un valore aggiunto».
Squadra esperta, ma non più giovane: ci sarà da pensare agli Spurs del futuro.
«Ne parlo ogni giorno con R.C. Buford, il manager: ci credete che, come data, siamo già avanti di cinque anni?».
Gli Spurs sono ormai un’icona, ma lei ha mai sognato di allenare squadre-mito come i Celtics o i Lakers?
«No, mai. Lascerei gli Spurs solo per (risata)... i Positano Tigers o per i Portofino Flyers. Non esistono, però io non scherzo: se li creassero, li allenerei gratis».
Burbero ed esigente, eppure molto umano: come si fa a conciliare i due aspetti?
«Cerco di capire di che cosa un giocatore ha bisogno e che cosa si aspetta da me sul piano personale: qualcuno la chiama psicologia».
Chi vincerà quest’anno?
«Vedo equilibrio, conteranno anche gli episodi marginali. Ma gli Spurs sono tra le squadre che possono farcela».
LeBron James ha fatto bene a lasciare Miami?
«Sì. Ogni atleta deve pensare a ciò che è meglio per se stesso, a prescindere dal giudizio altrui: per LeBron il meglio era tornare a Cleveland».
C’è un errore per il quale ancora oggi si metterebbe in castigo?
«Si dice che in gara 6 della finale 2013 con Miami io abbia sbagliato tanto: magari è vero, ma se ne può discutere perché non c’è nulla di assoluto».