SPOILER SEASON 5 – L’errore principale? Aver rincorso la sorpresa a tutti i costi sacrificando la psicologia dei personaggi e, di conseguenza, la coerenza delle loro azioni
Pubblicato
giugno 17, 2015
La frase che ho sentito ripetere più spesso dagli amici con cui ho visto la quinta stagione de Il Trono di Spade è stata: “mamma mia, qua non succede un cazzo.” Personalmente trovo imprecisa questa obiezione, perché in Game of Thrones non ci sono mai stati più di uno o due eventi sconcertanti per stagione: la morte di Ned Stark nella prima, il red wedding nella terza, l’avvelenamento di Jeoffrey nella quarta e così via.
Questa serie ci ha abituato a vedere i personaggi principali schiattare nei modi più scioccanti e violenti possibile, e gli sceneggiatori sembrano essere rimasti schiavi di queste aspettative, con il risultato che la morte dei protagonisti è finita per essere la cosa più prevedibile della stagione, e se non prevedibile quantomeno buttata là e irritante (vedasi Jon Snow). La regola chiave per sorprendere lo spettatore è proprio nel non mostrargli ciò che si aspetta di vedere, e in questo senso sarebbe stato molto più spiazzante sorvolare sulle morti illustri.
Nelle stagioni 1-4, tutti gli episodi di Game of Thrones che non raccontavano di teste fatte scoppiare premendo pollici contro gli occhi, gole tagliate o decapitazioni brutali erano volti a definire la psicologia dei personaggi e intessere le trame per gettare le basi delle loro successive evoluzioni: il complesso rapporto di Tyrion Lannister con la sua famiglia, che lo porterà al processo, la fuga e l’uccisione del padre. L’interminabile viaggio di Daenerys Targaryen, volto non soltanto alla costruzione di un proprio esercito quanto all’esportazione di un modello egualitario e democratico. O ancora il lungo purgatorio di Jon Snow per lavarsi la tacca di essere un bastardo. Ed è proprio in questi contorni che le ultime dieci puntate sono state peggiori delle altre.
In questa stagione l’approfondimento psicologico è stato dedicato quasi esclusivamente ai personaggi che gli autori avevano in mente di accoppare di lì a poco, con l’unico scopo di far affezionare gli spettatori per traumatizzarli al momento della loro morte: ecco quindi lunghe scene dedicate alla figlia di Stannis Baratheon prima del suo sacrificio, qualche chiacchiera a caso di Maester Aemon, lo scarso e poco convinto approfondimento di Myrcella. Il risultato è un intreccio alquanto grossolano e farraginoso in una stagione che avrebbe avuto un gran bisogno di sviluppi, dato l’evidente immobilismo psicologico dei personaggi principali (il caso di Tommen, anche detto “Re Cojone”, è emblematico in tal senso).
Mi dicono dalla regia che i romanzi da cui è tratta questa serie sono sotto certi aspetti i più deboli del ciclo delle Cronache del ghiaccio e del fuoco (io non li ho ancora letti e sto rimediando adesso), e che la produzione si è presa diverse libertà rispetto al tono originale dell’opera. Proprio per questo mi ha sorpreso che le scene meno convincenti siano proprio quelle che più hanno deviato dal manoscritto. L’agguato a Barristan Selmy è quasi un omaggio ai film di Bruce Lee, con duecento uomini armati che attaccano rigorosamente uno alla volta. Le Sand Snakes, molto meno presenti rispetto ai romanzi (e ci mancherebbe altro, capisco le esigenze di copione), sono ridotte a sottospecie di eroine femministe da B-movie, più adatte a Death Proof di Tarantino che a una serie del genere.
E tutto questo al di là delle pessime attrici che le interpretano.
Ma la puntata che mi ha deluso di più in tal senso è stata la penultima, che ho trovato di una banalità imbarazzante. Le urla della moglie di Stannis Baratheon davanti al rogo della figlia da lei stessa ordinato, così come il suo successivo suicidio, sembrano voler rimarcare un istinto materno del tutto fuori luogo nell’economia della serie. E l’arrivo del drago durante l’agguato a Daenerys – con sputi di fiamme chirurgicamente indirizzati ai nemici della Khaleesi invece che su chiunque gli passi davanti, come nei romanzi – è più telefonato di un “capra!” di Vittorio Sgarbi.
Se il testo originale non è quindi così vincolante per la produzione di Game of Thrones, perché allora non prendersi le stesse libertà per migliorare il romanzo nei tratti in cui è più lacunoso? Che senso ha aver speso cinque stagioni a narrare l’ambiziosa marcia verso il potere di Stannis Baratheon per poi sbrigarsela frettolosamente con l’improvviso abbandono dei suoi uomini e sorvolando addirittura sulla battaglia con i Bolton, tutto questo per dare più spazio alla grottesca carneficina che è il season finale?
Il motivo per cui ci siamo innamorati tutti di Game of Thrones non è solo il fatto che al protagonista della serie possa saltare la testa da un momento all’altro, ma l’estrema cura nella sceneggiatura, i dialoghi brillanti e mai scontati, le interpretazioni eccezionali e la splendida evoluzione della psicologia dei personaggi. Per cui, se gli autori hanno in mente di far crepare tutti i loro personaggi principali, faranno bene a dedicare più attenzione a quelli che dovranno subentrargli, altrimenti l’unica scelta sarà assumere gli sceneggiatori di Beautiful e farli resuscitare tutti.
This opera is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.
Open all references in tabs: [1 - 4]