È indiscutibile che con la sua "rivoluzione copernicana", vale a dire con la scoperta dell'inconscio, Freud non soltanto abbia detronizzato il soggetto, cioè l'Io cartesiano autocosciente, ma abbia anche gettato le basi per una riduzione dell'etica alla psicologia. Se infatti i sentimenti e le azioni umane hanno motivazioni inconsce, o derivano da un conflitto tra le «istanze dell'io» e tra inconscio e coscienza morale, il territorio dell'etica risulta molto ridotto, nella misura in cui si basa sulla capacità di riconoscimento conscio delle norme e dei valori. Tuttavia Freud non ha portato all'estremo questa riduzione, né ha mantenuto la stessa posizione sull'etica lungo il corso della sua opera e soprattutto ha reintrodotto il concetto di valore nella parte finale del suo lavoro. Nella prima teoria delle pulsioni i moventi umani fondamentali sono l'autoconservazione e la ricerca del piacere. In tal modo Freud sembra legato a un'etica di tipo edonistico-utilitaristico, vicina a quella di Bentham o di J. Stuart Mill; caposaldo di queste etiche è il concetto di neutralità del valore. Ma nell'opera di Freud sono presenti altri punti di vista che hanno rilevanza ai fini dell'etica. Nel Progetto (1895) vi sono tracce di un'ipotesi che colloca le origini delle «motivazioni morali» nell'esperienza di inermità/impotenza (Hilflosigkeit) infantile. Il suggerimento che la moralità derivi dall'esperienza di dipendenza del bambino piccolo e dalla capacità dell'adulto di identificarsi con tale esperienza sarà foriero di importanti sviluppi nella psicoanalisi dopo Freud. La teoria freudiana prende però, dopo quell'accenno, tutt'altra direzione, e spiega l'origine della moralità individuale come esito dell'insediamento, attraverso l'educazione, di una coscienza morale normativa se non punitiva: il Super-Io. Il Super-Io, in quanto erede dell'autorità dei genitori, «ne ha conservato il potere, la severità, la tendenza a sorvegliare e punire» (Il problema economico del masochismo, 1924). Freud prende in esame anche il cosiddetto Super-Io della civiltà (nel Disagio della civiltà, 1929) considerando però «l'etica della civiltà» un «esperimento terapeutico» un discorso nobile ma destinato al fallimento.
Se il caposaldo dell'etica utilitaristica è la neutralità del valore, Freud lo mette in crisi nell'Uomo Mosé e la religione monoteistica (1934-38) in cui traccia l'ultimo capitolo della storia del Super-Io della civiltà a partire da una riconsiderazione del monoteismo ebraico. Il monoteismo ha privilegiato nella civiltà lo sviluppo della Geistigkeit (spiritualità/intellettualità) rispetto a quanto proviene dai sensi e dalla sensorialità. L'etica deriva da questa sorta di limitazione o autolimitazione pulsionale, che viene definita come un valore superiore all'ideale della civiltà della Grecia classica, consistente nell'armonia tra anima e corpo.
In tutti questi passi è prevalente l'idea che la fonte della moralità sia la paura della punizione. Dai presupposti freudiani circa l'etica si stacca, nota il filosofo C. Fred Alford (Melanie Klein and critical social theory, 1989), il pensiero di Melanie Klein e di parte dei suoi seguaci, che ispirandosi in forme diverse al pensiero della psicoanalista inglese hanno sviluppato l'ipotesi per cui la moralità deriverebbe dalla capacità primaria di altruismo presente accanto all'autoconservazione. Tale capacità si traduce nell'accettazione di sentimenti depressivi di fronte alla propria aggressività, con conseguente capacità di prendersene la responsabilità e di riparare a essa. Quindi la moralità deriva dai sentimenti di compassione, dai sentimenti altruistici, insomma da sentimenti di amore più che non dalla paura della punizione e dell'autorità.
Gli impulsi riparativi nel senso kleiniano del termine costituiscono le tracce di un ideale etico, suggerisce Franco Fornari (1970), che porta ad esempio la posizione di Socrate rappresentata nel dialogo platonico Gorgia. Qui, nella discussione di Socrate con Polo troviamo una delle migliori illustrazioni dell'etica della riparazione: è più giusto scegliere di subire il male o l'ingiustizia piuttosto che infliggerlo ad altri.
Polo. «Ma tu, tu vorresti piuttosto patire che commettere ingiustizia?».
Socrate. «Non vorrei né patirla né commetterla, ma tra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei patire piuttosto che commettere ingiustizia».
L'etica della riparazione di stampo kleiniano ha delle consonanze (non vere e proprie parentele concettuali) con il pensiero di Hans Jonas e il suo «principio responsabilità». Come segnala Silvana Borutti (Per un'etica del discorso antropologico, 1993) il «principio responsabilità» ha il suo «archetipo nella responsabilità assunta nelle cure parentali» e perciò non è un ideale disincarnato. Tale principio «deduce (...) dall'esistenza dell'altro la responsabilità etica verso quell'esistenza». Il concetto kleiniano di riparazione, se consideriamo il principio che lo sottende, vale a dire l'esigenza di dare voce al più debole, riconosce la responsabilità che il «più forte» nella relazione (qualsiasi essa sia) assume nei confronti del «più debole». Le due posizioni in gioco, secondo Fornari, si trovano ancora in Platone, che nella Repubblica propone una serrata discussione sul rapporto tra la giustizia e la forza, intesa come dominio violento sugli altri. Trasimaco affronta Socrate e schernendolo sostiene che «la giustizia non è altro che l'utile del più forte», ma Socrate lo induce a concordare con lui che è vero l'opposto: «l'utile del più forte non è affatto giusto» e chi segue giustizia «guarda all'utile del (...) più debole, e non all'utile del più forte». Ancora una volta Fornari sottolinea la «necessità» di contemperare le due posizioni, intese come «logiche affettive diverse». O si tratta piuttosto di valori con cui la psicoanalisi allarga il suo orizzonte al di là del riduzionismo psicologico, e si apre all'incontro con l'etica?
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