Alcuni professori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Padova e di quella di Tubinga (Germania) hanno pubblicato uno studio riguardante la percezione che le persone hanno dei pazienti che si trovano in uno stato vegetativo o comunque in stati di coscienza ridotta.
Lo scopo principale era verificare se le posizioni sul fine vita fossero principalmente guidate dai principi morali e religiosi in cui le persone credono. Difatti, come atteso, tanto più le persone abbracciano un principio morale di tipo laicista tanto più considerano appropriata la richiesta di un paziente che chieda, o aveva chiesto da cosciente, l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione. Al contrario, tanto più le persone abbracciano un principio morale che ritiene sacra la vita, tanto meno ritengono che tale richiesta del paziente sia da soddisfare.
Un risvolto di questo studio interessante è la rilevazione di un forte pregiudizio: la concezione di vita e morte non dipende da dati oggettivi, ma da un giudizio di valore precedente: indipendentemente dalle decine e decine di risvegli, tanto più le persone credono nel principio della “libera scelta”, tanto più percepiscono come morti (dovevano dare alla condizione di morte un punteggio) i pazienti affetti da malattie in cui la coscienza è assente o gravemente compromessa, anche se alcune funzioni sono vitali. Non è più dunque la considerazione dei dati (sintomatologia, descrizione nosografica), a fare la differenza, ma il pregiudizio personale. La percezione dello stato di vita/morte dei pazienti non cambia invece, in funzione della patologia, per coloro che ritengono che la vita sia “sacra”.
In tempo di dittatura del relativismo, anche la vita e la morte non sono più condizioni assolute, se è vero che una persona può percepirne un’altra come “parecchio morta”.
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