Il cutting (tagliarsi con lamette, coltelli, forbici) e altri comportamenti (bruciarsi con le sigarette, battere la testa contro i muri, graffiarsi, tirarsi i capelli) sono azioni messe in atto dagli adolescenti e dai giovani di età compresa tra i 11 e i 25 anni che deliberatamente si fanno male per superare disagi che provano.
Alcune stime ipotizzano che il 10% degli adolescenti tra i 13 e i 16 anni, dunque oltre duecentomila adolescenti, lo fanno. Sono comportamenti messi in atto sia dalle ragazze che dai ragazzi, ma con una maggiore incidenza tra le ragazze. Nel 70% dei casi si tratta di un fenomeni legati all'età e alle difficoltà del periodo adolescenziale, ma nel 30% dei casi si rischia la cronicizzazione. Negli ultimi anni, poi, con la grande diffusione dei social, siti di condivisione e blog, il fenomeno di emulazione è cresciuto del 30% e solo una minima parte dei ragazzi chiede aiuto.
I tagli e le lesioni sono solitamente nascosti da abiti lunghi e bracciali. Ma attenzione: anche se i ragazzi fanno di tutto per nascondere quei segni coprendoli, l'autolesionismo è un gesto contro di sé che vuole parlare agli altri: un grido d'aiuto. Infatti, recenti studi, ritengono che i ragazzi si facciano male apposta per attirare l'attenzione.
L'autolesionismo, piuttosto che un modo per togliersi la vita, è un meccanismo di sopravvivenza per superare crisi, traumi, dolori, per gestire il dolore causata da varie situazioni: bullismo scolastico, difficoltà di relazione con i genitori e gli amici, delusioni amorose, lutti. Il dolore emotivo provato dai giovani è sostituito dal dolore fisico: questo provoca sentimenti come l' euforia, il fascino, calma relativa e sollievo vivo. I ragazzi pensano che questi comportamenti aiutino a sentire di avere un controllo di qualcosa nella loro vita, cosa che normalmente non riescono ad ottenere. I segni sul corpo, le ferite che raggiungono profondità diverse, sono un disperato tentativo di mostrare agli altri come si sentono, e chiedere aiuto.
Solitamente le ferite vengono fatte vedere ad amici e “fidanzati”, condivise sui social; mentre i genitori solitamente scoprono in maniera casuale tagli e lesioni. Farsi male diventa un rito ipnotico e catartico. Il coltello che scava nella pelle, la vista del sangue, la ferita che diventerà una cicatrice e dunque un trofeo: volgono il coltello contro se stessi quando ci si sente impotenti di fronte ad un dolore, un sopruso, una delusione. L’autolesionista non si piace, non ha fiducia in se e neppure negli altri, presenta frequenti sbalzi di umore.
Molti degli autolesionisti tendono a essere perfezionisti, incapaci di gestire e di manifestare verbalmente intense emozioni. Dove è tutto il disagio interiore, il malessere che non si è in grado di gestire? È nella sofferenza fisica, quindi in quella facilmente gestibile e più reale, rispetto alla sofferenza emozionale che è impalpabile.
Quando ci si taglia, si gode nel vedere il proprio corpo messo nella nostra stessa situazione di sofferenza e difficoltà, con l’eccezione però che le ferite guariscono e spariscono, alcuni senza lasciare traccia, altri invece lasciando dei segni. Per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore…..e poi restano i segni che apprezziamo perchè ricordano una guerra.
I ragazzi associano inconsciamente la risoluzione del loro malessere psicologico in qualcosa di fisico, trasportando il dolore emotivo il dolore fisico. L'autolesionista è un po’ come un pittore di se stesso: non dipinge il suo dolore sulla tela, ma che preferisce mostrarlo suo stesso corpo, per poi provare sollievo.
Chi si ferisce volontariamente si trova in una condizione di “solidificata” delusione: i problemi che non si riesce a risolvere nella mente, sono tradotti in sangue e dolore fisico, che poi passa. Ma in maniera ambivalente e distorta l’autolesionista sente il bisogno di mostrare agli altri che sta davvero soffrendo, offrendo loro qualcosa di concreto e di comunemente accettato come “dolore”: le cicatrici sulla pelle diventano il modo di rendere visibile esteriormente la sofferenza che si ha dentro, è un modo per comunicare agli altri il proprio dolore.
Il dolore fisico è prova che si è vivi, anche se si sta troppo male dentro.