C’è un avversario più veloce di Bolt, più ubriacante di Messi, più tosto di Alonso e più mostruoso di Federer: il suo nome è infortunio. Non c’è atleta che tenga, quando l’infortunio si presenta, in molti casi senza annunciarsi, lo sportivo non può far altro che arrendersi al suo volere ed accettare i suoi tempi. Spesso vuol dire modificare intere preparazioni, sviluppare immediatamente piani di recupero e stabilire i tempi di rientro. Fateci caso, quando un alteta si infortuna la prima domanda è sempre: “ma quando potrà rientrare?”. Si tende sempre a cercare di compensare il danno patito attraverso delle immediate fantasie di recupero, quando è evidente che la risposta è una stima, anche perchè a seconda del tipo di problema (muscolare o traumatico) non sempre è possibile procedere immediatamente con gli accertamenti clinici (nei casi muscolari, la presenza di sangue inficia i risultati della risonanza magnetica).
Non è un atteggiamento necessariamente sbagliato, tutt’altro, ma spesso ci si dimentica un fattore cruciale di questo processo: l’atleta! Sembra quasi essere un soggetto in disparte, destinato ad attendere che il tempo che trascorra fino al recupero… lo sportivo, però, vive ogni attimo e non è certo un aspetto da sottovalutare.
Durante il mio percorso di studi, con alcuni colleghi del Master (fra cui un preparatore atletico di levatura internazionale) abbiamo provato a sviluppare un percorso psico-fisico a fasi per il recupero dell’atleta. Di quel bellissimo lavoro vorrei proporvi alcuni aspetti chiave che ritengo possano essere utili agli sportivi (ma anche agli allenatori, ai preparatori ed ai familiari) che stanno affrontando una situazione del genere, con i dubbi e le paure tipiche di chi esce di scena e non sa quando, come e se tornerà:
- l’atleta vive il tempo dell’infortunio al 100%. Come evidenziato poco sopra, la persona infortunata è focalizzata sul tempo: sul tempo necessario al rientro e più direttamente sul tempo che vive nella condizione da infortunato. Molto spesso queste fasi si riducono ad una forma di attesa passiva, sottovalutando invece un aspetto critico di questa particolare condizione: il fatto stesso di avere del tempo per sè, a disposizione per fare qualsiasi qualcosa, è una situazione che raramente l’atleta può vivere poichè è sempre immerso da allenamenti e gare. Un piano che preveda lo sviluppo e l’apprendimento di competenze sportive strategiche e psicologiche rappresenta una soluzione ideale per impiegare con efficacia i giorni di degenza;
- l’atleta prova dolore. Il dolore fisico (anche questo eliminato invece nei discorsi da bar) può trasformarsi in dolore psicologico quando lo sportivo non è supportato da una buona resilienza e soprattutto da relazioni sociali soddisfacenti. Vi è un dolore oggettivo, causato dall’infortunio, che si presenta fin da subito, da accettare e sopportare. A volte però, soprattutto quando la guarigione è alle porte, si può manifestare un dolore “fantasma” o psicologico: l’atleta è clinicamente ok, ma ha sensazioni di fastidio, come di non essere ancora pronto del tutto. in questi casi sono utilizzate delle scale di valutazione soggettive dato che la strumentazione medica non è in grado di rilevare nessun valore di riferimento. A volte possono essere percezioni reali (le ricadute purtroppo accadono e psicologicamente sono ancor più difficili da gestire), ma molto spesso si tratta di dispercezioni. Da cosa sono causate? La risposta a questa domanda introduce un ulteriore elemento…
- l’atleta sperimenta emozioni contrastanti e in prevalenze negative, con la paura spesso a farla da padrone. E’ una difficoltà, quella dell’infortunio, in grado di mettere a dura prova anche i caratteri più forti, solidi e pacati proprio a causa delle impreviste emozioni da dover fronteggiare: la paura del dolore, la rabbia verso gli oggetti del proprio infortunio, la frustrazione del non poter fare come prima, il pensiero magico che tende a farci credere di poter cambiare la situazione non accettandola, la circospezione nello svolgere esami e terapia, il terrore della ricaduta, la gioia per un movimento corretto e sano, lo sconforto nel rilevare i limiti imposti dal proprio corpo malato… In una fase così delicata non c’è da stupirsi quanto mente e corpo siano un tutt’uno e di come si influenzino a vicenda. Esistono delle evidenze a conferma di ciò: per fare un esempio, attraverso gli strumenti di biofeedback di cui abbiamo parlato negli articoli precedenti, è stato dimostrato come atleti preoccupati ed agitati abbiamo una maggior possibilità di incorrere in infortuni proprio a causa della presenza di maggior tensione muscolare (EMG). Consigliabile quindi l’utilizzo di tecniche di rilassamento muscolare abbinate ad esercizi di visualizzazione
- L’atleta è una persona… ma rimane comunque un atleta! Io stesso, in precedenti articoli, ho parlato di come sia importante non dimenticare la persona che sta dietro allo sportivo. Il rapporto è però reversibile: il fatto di essere infortunati non deve precludere l’idea di essere comunque un atleta. Sarà perciò importante continuare ad approcciarsi al proprio sport cercando di compiere le azioni classiche di sempre come: indossare l’abbigliamento tecnico e la divisa ufficiale, presentarsi nella struttura sportiva e svolgere le attività di preparazione che non coinvolgono l’arto infortunato, presenziare alle riunioni con lo staff e i compagni (sia negli sport di squadra ma anche in quelli individuali) e così via. Un approccio olistico è sicuramente la soluzione ideale. L’infortunio riguarda una parte di sè che si può “mettere un poco in disparte” a favore di uno sviluppo complessivo dell’individuo.
Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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