L’ultima volta che ho incontrato Magnus Carlsen ci trovavamo entrambi a Wijk aan Zee, un villaggio affacciato sul Mare del Nord. Lui aveva appena stracciato tutti gli avversari al Tata Steel, uno dei tornei di scacchi più importanti del mondo. Io, invece, ero ospite in Olanda a godermi i frutti di mare ma soprattutto impegnata a non perdermi nemmeno uno degli incontri in programma, da fanatica degli scacchi quale sono, iniziata al gioco da mio padre Viktor e poi da Eric Lobron, mio compagno da dieci anni, Gran Maestro e scacchista professionista fino a non molto tempo fa. L’avevo ammirato nel suo gioco spietato e calcolatore. Avevo osservato quel ragazzino sempre chiuso in se stesso. Una specie di guerriero solitario che passeggiava tra i tavoli senza rivolgere sguardi e parole a nessuno. Trovarmelo davanti a un anno di distanza, adesso, fa un effetto strano, perché Magnus sembra sempre lo stesso mentre intorno a lui è cambiato tutto quanto. A 23 anni è diventato campione del mondo battendo l’indiano Anand. Ed è una star internazionale. Più sciolto di come lo immaginavo. Quasi pieno di sé. In un soleggiato pomeriggio londinese ci sediamo uno davanti all’altra per giocare una partita che non è propriamente la sua: io, di professione top model, ma di provata e sperimentata fede scacchistica, alla prima esperienza da reporter per Icon. Lui, nei panni che dovrebbero essere i miei: modello e testimonial, insieme alla mia collega Lily Cole, per il marchio d’abbigliamento G-Star. Chiacchieriamo per un’ora. Ridiamo. Ci scambiamo opinioni su una passione che lui domina, mentre a me divora.
Se giocassimo una partita amichevole, adesso, mi lasceresti vincere?
Mmhhh. Perché me lo chiedi?.
Perché quando ho giocato con Viswanathan Anand (l’ex campione del mondo al quale Carlsen ha strappato il titolo, ndr), lui m’ha lasciato pareggiare, nonostante potesse battermi.
Non credo che avrei fatto altrettanto. Se sono in una posizione di vantaggio, voglio vincere.
Che rapporto hai con la sconfitta?
Da ragazzino sapevo perdere con onore, anche con grazia direi. Finché una sconfitta portava con sé un insegnamento, non mi dava problemi. Adesso che non succede quasi più, e sono il migliore al mondo, è diventato più difficile accettare le sconfitte.
Quindi gli scacchi sono prima di tutto uno sport e solo in un secondo momento una scienza e un’arte?
Lo scopo principale è sconfiggere l’avversario. Quindi sì, sono prima di tutto uno sport. Poi, però, sono anche scienza, nel senso che è scientifico il metodo che si usa per trovare nuove aperture e nuove soluzioni tecniche, come pure l’approccio con cui si fa ricerca. Ma sono anche arte, perché lo scacchista crea qualcosa di inusuale e nuovo, che in pochi sono in grado di capire.
Quante ore dormi, prima di una gara?
Almeno nove. E cerco di mangiare cose salutari, di tenere gli zuccheri nel sangue a livello stabile, per mantenere alta la concentrazione.
Tu non vinci per via della stabile concentrazione, ma per le tue straordinarie doti intuitive. Sapresti descrivere questo potere?
Per prima cosa, credo che si possano avere grandi intuizioni solo dopo aver accumulato tanta esperienza. Ma allo stesso modo, che non si possano avere intuizioni senza avere contemporaneamente un grande talento.
Quale aspetto è decisivo?
Aver visto tante situazioni diverse ti porta ad anticipare le situazioni di gioco, a compiere lo scatto vincente. Ma senza il talento, ti troveresti in una specie di trappola esistenziale, traendo cioè dall’esperienza le conclusioni sbagliate. Alla fine dei conti, quindi, è probabilmente più importante il talento, che rende l’intuizione una specie di dono di Dio.
Ti piacciono le “partite lampo”, in cui è obbligatorio terminare in meno di quindici minuti?
Solo quando sono in forma smagliante. Perché se sei costretto a risolvere la partita in un tempo così ristretto necessariamente farai degli errori. E io odio sbagliare.
Gli scacchi richiedono anche la capacità di anticipare l’avversario. Sei in grado di “leggere” psicologicamente i tuoi avversari?
Ci provo, ma non è facile. Durante l’ultimo campionato del mondo, per esempio, notavo che Anand, il campione in carica che ho battuto, era scosso da tremori. Ma non capivo se fossero per il nervosismo o l’eccitazione. Credo sia più utile concentrarsi sulle proprie mosse, in generale.
Credi che lo stile di gioco di uno scacchista rispecchi la sua personalità?
Sì. Con Kasparov era evidente: da persona attratta dai conflitti, sulla scacchiera ingaggiava battaglie sanguinose. Io invece non li amo e infatti cerco di tenere l’avversario sotto controllo, sottomesso, e non ingaggiare mai una battaglia diretta.
Nel tuo tempo libero giochi a scacchi?
Un’oretta al giorno mediamente, non di più. Poi, però, ci sono giorni che non li tocco per niente, altri che vado avanti per ore. Comunque il gioco è sempre con me, nella mia testa. Anche se non tocco la scacchiera.
E prima di un campionato del mondo?
Mi alleno sei o sette ore al giorno, per due settimane, col mio coach Peter Heine Nielsen.
Non sembrano i ritmi di una persona molto preoccupata degli avversari, sinceramente.
Credo che sia un approccio saggio. Ho la certezza di essere il giocatore più forte, e quindi il mio lavoro è principalmente quello di trovare posizioni che mi permettano di sfruttare questo vantaggio naturale. Sono gli altri a dover cercare aperture che possano mettermi in difficoltà.
Parli come se non avessi più nulla da imparare.
Parlo in termini relativi. In termini assoluti ho tantissimo da imparare: due anni fa ero già considerato il numero uno, eppure non sapevo un bel niente di scacchi. E la stessa cosa mi piacerebbe provarla tra due anni, ripensando a oggi.
Sei un tipo superstizioso?
No. Ma mi comporto in modo superstizioso, alcune volte. Durante i campionati del mondo, un ragazzino mi ha chiesto di firmargli un libro sulla finale del 1960 tra Tal e Botvinnik e ho rifiutato.
E perché?
Perché nel 1960, quando Tal vinse il campionato del mondo di quell’anno, aveva ventitré anni proprio come me. E in seguito non fu più in grado di ripetersi.
Interessante. Altro?
Non riutilizzo mai una penna con la quale ho perso un incontro, per esempio. Quella che avevo in mano nella sconfitta con Ivanchuk, dopo l’incontro l’ho lanciata nel Tamigi.
Se ti portassi una valigetta con dentro cento milioni di dollari, e ti dicessi che accettarla significherebbe non toccare più una scacchiera?
Rifiuterei. Ma richiedimelo tra dieci anni.
Ha collaborato Raffaele Panizza