La finanza, rispetto al fisco, è avanti di molti anni. Lo studio dei comportamenti individuali e collettivi sottostanti gli investimenti è iniziata da molti decenni e ha prodotto perfino due Nobel, Daniel Kahneman e Amos Tversky. La materia è chiamata Behavioural Finance e serve per capire la logica della condotta degli individui o dei gruppi quando si trovano a dover effettuare scelte rischiose o incerte. Anni di ricerche hanno dimostrato che molto spesso la razionalità umana non la fa da padrone nel guidare le decisioni di investimento. Le tasse rappresentano uno dei tanti rischi che devono gestire gli investitori, chiamati quantomeno a sterilizzarne al massimo l'impatto sulla propria capacità di consumo o sul reddito disponibile. Le politiche fiscali, poi, sono calate su una collettività le cui sensibilità rispetto alla ricchezza o alle aspettative economiche non sono pietrificate nel tempo. Un conto, ad esempio, era decidere una politica di aggiustamento macroeconomico facendo leva completamente sulle maggiori entrate negli anni 80 o 90, altra cosa è applicare la stessa ricetta oggi. Sulla carta le basi imponibili impattate, consumi di benzina, Iva e redditi vari, sono le stesse, nella realtà la volatilità di tali base imponibili nella psicologia collettiva è molto maggiore oggi. Il tecnico pensa che la base imponibile aggregata, sulla quale applica l'Iva, è una dimensione quantitativa tout court, dietro la quale non esiste una dimensione comportamentale diffusa. Così proietta l'incremento dell'aliquota all'interno di modelli econometrici asettici e incapaci di valutare l'impatto della Behavioural Taxation sull'economia. Il risultato è quello che stiamo osservando: la nascita di aspettative individuali e collettive estremamente negative sul futuro dell'economia. Ma cosa è diverso oggi rispetto a qualche tempo fa? Ovviamente la demografia della società, perché una collettività mediamente più vecchia reagisce meno bene al cambiamento. Ovviamente il livello di tassazione iniziale, molto più basso allora, sul quale si applica l'incremento. Ma soprattutto è la percezione della rischiosità delle basi imponibili a fare la differenza. Oggi la maggioranza dei contribuenti sente i propri redditi meno sicuri di qualche tempo fa, percepisce che sono esposti al mare aperto della competizione globale e intuisce che l'intermediazione pubblica, finanziata dalle tasse, ha meno possibilità di adottare politiche di tutela. Così non deve sorprendere se la manovra fiscale ha prodotto un effetto recessivo sulle aspettative economiche degli italiani, perché la società è un corpo vivo non un numero sul computer sul quale applicare automaticamente la simulazione delle aliquote. *Twitter@EdoNarduzzi