La psicologia della religione non è "roba da preti"

Il prof. Mario Aletti

Intervista con il prof. Mrio Aletti che lunedì aprire un convegno dedicato al tema

Fabrizio Mastrofini

Roma

Si intitola «La psicologia della religione: ambiti di ricerca e prospettive di applicazione» ed è la giornata di studio che si tiene lunedì 14 all’Università Cattolica di Milano. L’appuntamento è organizzato dalla Società Italiana di Psicologia della Religione (Sipr), animata da Mario Aletti, psicoanlista, docente proprio alla Università Cattolica. Il prof. Aletti ha accettato di rispondere ad alcune domande per Vaticaninsider.

La psicologia della religione non sembra molto frequentata in Italia. Eppure essendo un paese cattolico ci si aspetterebbe un'ampia diffusione di studi e ricerche

In Italia lo studio psicologico della religione è poco frequentato negli ambienti accademici; un interesse appena maggiore si riscontra tra gli psicologi professionisti, specie psicoterapeuti e psicoanalisti. Diversamente da quanto riscontrabile in ambito nordeuropeo e americano, in Italia non ci sono cattedre, e gli insegnamenti di psicologia della religione sono poco numerosi e proposti come opzionali. Le cause sono molteplici,  ma fondamentalmente derivate da un passato di reciproche diffidenze tra istituzione ecclesiale e ambienti  della psicologia accademica. Se in certi ambienti ecclesiali (ormai solo i più integralisti e  retrivi, ma ancora influenti), si teme che la psicologia (e la psicoanalisi, soprattutto) tenda a ridurre la religiosità a prodotto di dinamismi psichici o neurologici, dall’altra parte, nella peggiore “vulgata” accademica, si irride alla psicologia della religione come “roba da preti”, o si teme che la religione voglia utilizzare la psicologia in funzione apologetica, quasi ad a coglierne una prova in più dell’esistenze di Dio. Mentre la psicologia della religione, disciplina empirica come ogni altra “psicologia di…” ha una sua chiara fondazione epistemologica che la tiene lontano sia da riduzionismi psicologistici, sia da argomentazioni pseudo-apologetiche.  Interessata non alla religione, ma al vissuto psichico delle a persona religiosa, ha un costante riferimento all’”esclusione metodologica del Trascendente”, sia come oggetto di studio, sia come criterio esplicativo di fenomeni psichici, secondo l’eredità che già nel 1902 gli affidò uno dei suoi padri fondatori, Theodore Flournoy. Personalmente, lo vado ripetendo da almeno quarant’anni e lo vedo facilmente riconosciuto, anche negli ambienti accademici. Se dunque la psicologia della religione non ha dignità e spazio adeguato nelle Università, sia statali che cattoliche, di certo i motivi sono extra-teoretici ed extra-scientifici. La giornata di studio che si terrà alla Cattolica di Milano il 14 ottobre si propone proprio come superamento di questo isolamento della psicologia della religione, evidenziandone l’ambito epistemologico, lo stato attuale della ricerca e le nuove prospettive di studio, le intersezioni con le altre discipline psicologiche e quelle pedagogiche, le opportunità di impiego in ambito professionale

Non sarebbe più esatto parlare di psicologia 'degli atteggiamenti religiosi'? Qual'è la sua opinione

In effetti, l’espressione sintetica psicologia della religione può essere fraintesa e richiede una precisazione.  La psicologia ha per oggetto proprio la psiche, manifestazione della persona. Propriamente, studia non la religione, ma il credente. O, meglio ancora, l’uomo e il suo atteggiamento verso la religione, quale che esso sia, tanto nel senso dell’adesione di fede, quanto nel senso del rifiuto ateo. Conseguentemente, la psicologia della religione è anche psicologia dell’ateismo, perché anche l’ateismo suppone emozioni e vissuti e percorsi psichici verso una qualche rappresentazione mentale del Dio di cui nega l’esistenza. E, come già sosteneva il Pastore e psicoanalista Oskar Pfister in una lettera a Freud del 9 febbraio 1929,: “L’incredulità è semplicemente una fede negativa”.  La psicologia opera una rilettura critica dei fenomeni, dei processi e delle motivazioni, consce ed inconsce dei fatti religiosi, mirando a mostrarne le potenzialità, le ambivalenze, le criticità per la personalità al livello intrapsichico, cioè del singolo soggetto e, a livello interpsichico, cioè tra gli individui e tra i gruppi. La religione è capace, da una parte,  di dare risposte salvifiche alla ricerca di significato dell’esistenza a malati terminali e, d’altra parte, fornisce pretesti a fondamentalisti disposti a sacrificare la vita propria ed altrui in suicidi-eccidi. Lo psicologo è interpellato da questi fenomeni che studia sia in prospettiva psicodinamica che in  prospettiva psicosociale.

Quali sono a suo avviso gli ambiti di ricerca concreta di questa disciplina?

L’interesse della psicologia per la religione nasce intorno ad una questione fondamentale: Quando l'uomo dice Dio, che cosa veramente dice? Per esempio  quando dice “Dio Padre", chi e che cosa parla, in quel linguaggio, in quella parola, in quella metafora religiosa? La domanda si articola e si specifica su tutti gli aspetti della vita religiosa. Come e attraverso quali percorsi si costituisce l’identità religiosa e come si rapporta con il pluralismo religioso e/o il fondamentalismo, quale il rapporto e/o le differenze tra religione e spiritualità tra religiosità individuale e religione istituzionale. Quali le motivazioni della rinnovata rilevanza, anche sociale e politica della religiosità. O per esempio, la questione delle sette e del lavaggio del cervello, di cui il Parlamento italiano si sta occupando in maniera assolutamente superficiale, consultando rappresentanti del “movimenti anti-sette” e ignorando invece i risultati della letteratura scientifica internazionale ed anche quella dei, pochi, ricercatori italiani. Nel campo più specifico della religione istituzionale (in Italia prevalentemente, ma non solo quella  cattolica) interessanti ambiti di ricerca sono: gli atteggiamenti verso la preghiera individuale, la dimensione comunitaria dell’espressione della fede, il rito e la liturgia, la questione delle apparizioni, delle visioni e dei miracoli, le esperienze mistiche. Studi interessanti sul linguaggio della comunicazione religiosa  e sui diversi linguaggi utilizzati all’interno della Chiesa; quello delle encicliche, quello della teologia accademica, quello della predicazione, quello della catechesi ai piccoli. Emergente è l’interesse per la comunicazione religiosa attraverso il linguaggio e le modalità comunicative dei mass-media e dei social network.  E sempre maggior attenzione, nelle indagini scientifiche e nella prassi formativa, viene posta alla formazione umana di sacerdoti e religiosi, comprendendo la  questione dell’integrazione affettiva del clero e la prevenzione degli eventuali abusi sessuali.

Alcuni studi (pochi nel complesso) e soprattutto la quotidianità, evidenziano la difficoltà nel vivere insieme per i gruppi (parrocchiali, vita consacrata...). Una maggiore consapevolezza della dimensione psicologica aiuterebbe? E perchè non la si promuove?

E’ vero che, all’interno della stessa religione cattolica, laddove tutti i fedeli dovrebbero riconoscersi nello stesso Vangelo di Cristo, si verificano molte fratture, divisioni, lotte, contrapposizioni e proselitismi. Lo stesso fenomeno si verifica all’interno delle religioni del Libro, che tutte si richiamano allo stesso Padre e allo stesso Testo Sacro. Le lotte tra i fedeli di diversa appartenenza sono più forti di quelle verso l’esterno (Gli “infedeli” non son quelli senza religione, ma quelli che hanno una religione diversa). Si verifica quel fenomeno che Freud indicava come “il narcisismo delle piccole differenze”: il bisogno di rinforzare un’identità debole per contrapposizione, magari cercata nelle cose minime. La consapevolezza psicologica che la “nostra” verità  è il punto di arrivo, sempre parziale e ipotetico, di un nostro lungo percorso (e non è un “dato” ovvio per tutti)  aiuterebbe a riconoscere la “verità”, o almeno la buona fede di chi ha fatto altri percorsi, con altrettanta onesta e impegno. Qui è la fonte del vero pluralismo. Non nella contrapposizione delle posizioni raggiunte, ma nel riconoscimento della molteplicità dei percorsi possibili. Gli studi sul fondamentalismo religioso, concordano nel ritenere che questo atteggiamento sia da riferire più a tratti di personalità, che al contenuto e alla struttura del credo religioso. Non le religioni sono fondamentaliste, ma le persone che vi aderiscono (proprio forse per i loro bisogni di identificazione). Lo stesso processo vale pone per quei gruppi cattolici ritenuti più integralisti, richiusi nell’in-group e contrappositivi rispetto all’out-group. Spesso, a rinforzare queste chiusure contribuisce l’atteggiamento di un leader, di una leadership, o di una struttura organizzativa autoritaria e normante.

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