La crisi Iran-Israele. Nella testa dei duellanti Ahmadinejad e …


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La crisi Iran-Israele. Nella testa dei duellanti Ahmadinejad e Netanyahu

di Pino Buongiorno

“La sfida è davvero affascinante”. Il medico Jerrold Post oggi insegna psichiatria, psicologia politica e affari internazionali all’Università George Washington della capitale americana. Ma per 21 anni ha lavorato, a qualche chilometro di distanza, nel quartier generale della Cia, dove ha fondato e diretto il Centro per l’analisi delle personalità e il comportamento politico. È stato lui a fornire ai vari presidenti americani e ai segretari di Stato i profili dei leader stranieri in situazioni di crisi o alla vigilia dei summit internazionali: Menachem Begin e Anwar Sadat, Saddam Hussein e Fidel Castro, Hugo Chávez, Muammar Gheddafi, Osama Bin Laden… Ora che si avvicina paurosamente il confronto-scontro fra il presidente della Repubblica islamica dell’Iran, Mahmoud Ahmadinejad, e il primo ministro d’Israele, Benjamin Netanyahu, la lettura di queste due personalità, così come Post fa in esclusiva per Panorama, è di estrema importanza.

Lo stesso Barack Obama, il terzo protagonista di quella che rischia di essere la crisi per eccellenza del 2012, ha chiesto ai successori del dottor Post di aggiornare ogni settimana i dossier sui due leader in modo da evitare di essere colto di sorpresa dalle mosse improvvise di uno di loro proprio nel bel mezzo della campagna elettorale per le presidenziali. Dietro le quinte, la Casa Bianca sta lavorando per scongiurare o, quanto meno, per allungare i tempi (almeno fin dopo il voto di novembre) dell’attacco israeliano contro i bunker nucleari dell’Iran.

Secondo le analisi del dipartimento del Tesoro, le sanzioni economiche e finanziarie contro Teheran approvate di recente sia dall’amministrazione americana sia dall’Unione Europea hanno cominciato a mordere al punto che il regime degli ayatollah non riesce più nemmeno a pagare le importazioni di riso dall’India e si vede costretto a barattare oro e petrolio per le forniture di cibo. I guardiani della rivoluzione (pasdaran) sono in subbuglio perché non fanno più affari con i paesi del Golfo e rischiano il congelamento definitivo dei conti bancari aperti a Dubai. La stessa leadership politico-religiosa è spaccata fra radicali e conservatori alla vigilia delle elezioni del 2 marzo per il rinnovo del parlamento iraniano.

Perché allora Israele dovrebbe avere tanta fretta da pianificare l’attacco fra aprile e giugno, come ha affermato il segretario alla Difesa Leon Panetta, mandando alle stelle il prezzo della benzina, scatenando una guerra che potrebbe coinvolgere anche i marines e mettendo a ferro e fuoco lo Stretto di Hormuz, dove transita un terzo del petrolio mondiale, fino a distruggere l’agognata ripresa economica degli Stati Uniti? È questo l’interrogativo che lo stesso Obama rivolgerà a Netanyahu, quando il primo ministro d’Israele sarà ricevuto alla Casa Bianca negli stessi giorni di marzo in cui a Teheran si voterà.

Vista da Gerusalemme e dalla capitale iraniana, la corsa verso il baratro ha dinamiche assai diverse. Per il governo israeliano è in ballo la sicurezza dello stato ebraico faticosamente nato nel 1948. Per quello iraniano la corsa al nucleare significa il dominio politico ed economico nel Medio Oriente e nel Golfo Persico, con conseguente vittoria finale dei musulmani sciiti sui sunniti dell’Arabia Saudita e dell’Egitto.

Anche il linguaggio dei due leader sta progressivamente cambiando. Netanyahu usa ormai toni alla Winston Churchill nei suoi discorsi sull’Iran. Mentre il nemico giurato che sta a Teheran preannuncia ulteriori progressi nucleari.

Chi pensa che sia solo retorica o propaganda sbaglia di grosso poiché la biografia di Ahmadinejad, la sua psiche, il suo credo religioso fanno davvero temere il peggio.

Sul fronte opposto anche Netanyahu non segnala momenti di debolezza. Anzi, chi lo ha incontrato di recente sente vibrare maggiore determinazione e pochissimi dubbi.

E allora andiamo a vedere da vicino cosa c’è nella testa di questi due leader, cominciando proprio da colui che si sente investito della sacra missione di dominare da Teheran il mondo musulmano e di spazzare via gli ebrei e i loro alleati occidentali. L’analisi comportamentale di Post lascia poca speranza su un qualsiasi tipo di ravvedimento. Nato il 28 ottobre 1956, sotto il segno dello Scorpione, in un piccolo villaggio vicino alla città di Gamsar, Mahmoud, quarto di sette figli, ha sempre fatto enormi sacrifici per la sua umile famiglia pur di affermare il suo ego. Si è laureato in ingegneria civile e ha fondato l’Unione degli studenti islamici affiliandosi in seguito ai pasdaran. L’estremismo è sempre stato la sua cifra umana e politica, sia da sindaco di Teheran sia da presidente. Perché? La spiegazione, secondo Post, deriva dalla setta religiosa alla quale ha aderito.

Ahmadinejad è seguace del movimento Il Dodicesimo. Si riferisce al 12° imam, Mohammed Mahdi, discendente diretto del profeta Maometto, che è scomparso nell’874. Secondo la leggenda, il Mahdi non è morto, ma si è nascosto e si «rivelerà» in un periodo di caos prima del giorno del Giudizio universale. Post spiega nel suo studio che la maggior parte dei dodicesimi sono tranquilli e aspettano solo l’arrivo dell’imam. C’è però un piccolo gruppo di mahdisti che appaiono invece belligeranti e tentano in tutti i modi di accorciare i tempi dell’attesa promuovendo il caos subito. «Ahmadinejad è uno di loro» assicura lo psichiatra americano, che ricorda i finanziamenti elargiti da Mahmoud, quand’era sindaco di Teheran, per preparare strade e case in vista della riapparizione dell’imam, e ancora i 17 milioni di dollari concessi dopo la sorprendente vittoria presidenziale per la moschea di Jamkaran, dove dovrebbe farsi vivo il Mahdi.

Cosa si può dedurre da tutto questo? “I ripetuti appelli per l’eliminazione d’Israele e la forte spinta data al programma nucleare, se li leggiamo attraverso queste lenti, sono coerenti con la fede religiosa. Tutto ciò che produce caos favorisce l’arrivo sulla Terra del messia sciita. Di conseguenza gli abituali elementi della diplomazia coercitiva, in termini di paura di rappresaglia, non hanno alcun valore per uno come lui” dice Post a Panorama.

La deterrenza in questo caso di “fanatismo paranoico” può arrivare solo dalla complessa lotta di potere fra pragmatici e radicali, con sullo sfondo il 70 per cento dei giovani iraniani sotto i 30 anni che anelano a emulare i valori occidentali. In ultima istanza saranno i vertici militari dei pasdaran e la stessa guida suprema Ali Khamenei a segnare il destino di Ahmadinejad, considerato troppo potente. Le prossime elezioni parlamentari saranno il primo banco di prova. Il secondo sarà la decisione alla quale sta lavorando Khamenei: rimuovere il presidente dal suo ruolo attivo nel programma nucleare trasferendolo interamente al comando dei pasdaran.

Se esaminiamo il comportamento politico di Netanyahu, non possiamo ovviamente parlare né di fanatismo né di leggende religiose. “Il profilo di Netanyahu così come l’ho delineato assieme al mio direttore di ricerche Ruthie Pertsis” afferma Post “enfatizza il suo bisogno di essere estremamente duro in risposta alle dinamiche familiari e al suo ruolo peculiare di ‘figlio di seconda scelta’”. Di cosa si tratta? Benzion, il padre di Bibi, uno storico di destra, era stato respinto da Israele, largamente dominato all’epoca dai laburisti, a causa del suo estremismo, tanto da trasferirsi negli Stati Uniti. Volendo a tutti i costi riscattarsi puntò sull’amato primogenito, Jonathan, ritornato in patria nel 1967. La sorte ha voluto che Jonathan morisse nel 1976 a Entebbe durante un’operazione per liberare alcuni ostaggi israeliani. Fu una tragedia per Israele e soprattutto per la famiglia. Il testimone passò così a Bibi, nato il 21 ottobre 1949 sotto il segno della Bilancia, erettosi a paladino della guerra a oltranza al terrorismo e a difensore di ultima istanza della sicurezza dello stato ebraico contro “tutte le sue vulnerabilità”. Afferma lo psichiatra Post: “Benjamin sa che non sarà mai all’altezza dell’immagine idealizzata del fratello maggiore e delle estreme aspettative del padre. Ora, a 101 anni, il vecchio Benzion continua a scrutare attentamente Bibi da dietro le spalle per vedere se è capace o meno di salvare Israele”.

Chi può fermare in queste condizioni la missione salvifica di Netanyahu? Anche qui la deterrenza appare più dettata dagli apparati di intelligence interni che dalle ritorsioni politiche, militari ed economiche di un eventuale blitz aereo. Il Mossad non fa mistero delle critiche contro quella che l’ex capo dei servizi segreti Meir Dagan ha definito pubblicamente «l’idea stupida di attaccare l’Iran». Meglio, molto meglio, le operazioni sotto copertura contro gli scienziati atomici iraniani e gli impianti nucleari, in particolare quello di Fordow, vicino alla città santa di Qom, il bersaglio più appetito dal Mossad. Il successore di Dagan, Tamir Pardo, non ha cambiato idea e anche lui ha chiesto a Netanyahu di pazientare ancora qualche mese. Poi, a fine gennaio, è volato in gran segreto a Washington, ufficialmente per tastare il polso dell’amministrazione Obama in caso di un bombardamento unilaterale israeliano deciso dai 12 membri del gabinetto di sicurezza, guidato da Netanyahu.

In realtà, come si è saputo successivamente a Tel Aviv, per consultarsi con la Cia in modo da rilanciare il programma congiunto di “operazioni di contrasto”: nuovi virus informatici letali per mandare in tilt i computer delle centrali iraniane, sabotaggi a oltranza dei laboratori atomici, omicidi mirati e defezioni di generali e scienziati. Tutto pur di evitare il Giorno del giudizio, che tanto amerebbe Ahmadinejad.

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