Intervista a Giambattista Passarelli


Giambattista Passarelli

Giambattista Passarelli, laureato in psicologia a Padova, dove tutt'oggi vive, ha trascorso la sua infanzia e adolescenza nella provincia tarantina. Si catapulta sulla ribalta letteraria aggiungendo la sua già ottima voce narrativa a l nutrito gruppo di giovani scrittori pugliesi emersi con successo nell'ultimo decennio. L'abbiamo raggiunto per proporgli qualche domanda.

Partiamo proprio dalle tue origini. Che Sud hai voluto raccontare nel tuo romanzo Di sabbia e di vento?
Il Sud che ho voluto raccontare in questo romanzo è una terra contraddittoria, in cui coesistono sublime bellezza e usurpazione del territorio, allegria e apatia, coraggio e rassegnazione. E’ la terra per la quale ogni problema sembra congenito e, come tale, naturale fino al punto in cui risulta persino difficile distinguere vittime e carnefici. I protagonisti della storia non sono altro che ragazzi che comprendono, quasi fosse una rivelazione, che tutto questo non è normale: per loro non è sufficiente scrollare le spalle per dare una spiegazione ad un dramma reale.

 

Come mai nonostante la forte connotazione territoriale manca un riferimento specifico della città dove è ambientato il romanzo?
L’idea di non dare una connotazione territoriale specifica alla storia è stata un’idea presente sin dalla scrittura delle prime pagine. Il romanzo mira a quei problemi che, pur sotto diverse facce e accenti, sono drammaticamente comuni a tutto il Sud d’Italia: problemi di una società senza strutture, in cui l’accesso ai diritti fondamentali diventa questione di privilegio e quasi sempre a vincere è il più forte. In questo senso, la mia non è una storia di mafia ma di tutti quei vuoti e quelle risacche in cui un sistema malato prolifica.

 

 
Perché hai scelto tre protagonisti così giovani? Pensi che dai giovani possa nascere una reale spinta per riscattare la situazione del Sud?
Proprio così! I problemi che affliggono il Sud, dal mio punto di vista, affondano le radici così in profondità che molti non li vedono più, se non per ascriverli a folklore o ad un’abitudine quasi confortante… I ragazzi sono spesso gli idealisti che ancora non osservano il mondo con le lenti della società e, in questo modo, sono coloro che “sentono” le difficoltà meglio di chiunque altro. Penso che nei giovani ci sia la speranza per un riscatto del Mezzogiorno anche perché è una nuova epoca quella che abbiamo di fronte a noi. 

 
E se sì, con quali strumenti ci si può ribellare a tutto questo? 
Credo che la situazione attuale provenga da troppi anni in cui la gente si è affidata, spesso in buona fede, a persone che non ne hanno dato nessuna rappresentanza e in cui, allo stesso tempo, si è impegnata troppo poco per affrontare determinati problemi. Io penso che le parole chiave per ribellarsi a questo stato di cose siano: “consapevolezza” (dei problemi, delle proprie colpe, delle proprie azioni) e “partecipazione” (controllo senza più deleghe in bianco, difesa della cultura e del territorio) . Trasformare la resistenza di persone silenziose ed eroiche, che già oggi tiene in vita una terra meravigliosa, in normalità. 
 
Come possono i giovani meridionali evitare di assuefarsi ad una mentalità incancrenita oramai dall'illegalità e dalla sopraffazione?
Un cambio di mentalità non è mai un processo semplice e può essere lunghissimo così come avere accelerazioni inattese. La chiave, a mio parere, è la valorizzazione di modelli positivi: fino a quando forza e rispetto saranno sinonimo di sopraffazione e prepotenza non potremo sperare in grandi cambiamenti. Anche in questo non dobbiamo però sognare aiuti esterni: valorizzare modelli positivi è compito di ognuno di noi, in ogni scelta, anche la più insignificante. Aggiungerei quindi una terza parola chiave, che è “responsabilizzazione”. 
 
Come nel romanzo del tuo corregionale Giuliano Pavone anche tu usi il calcio come volano di riscatto. Può davvero il calcio svolgere questa funzione?
Il calcio, come ogni sport, può svolgere una funzione positiva nel fatto di aggregare dei ragazzi e regolarne il divertimento. Nel mio caso ho usato il calcio (oltre che per innegabile passione personale) perché, da sport più amato d’Italia, fa sì che ogni angolo, spiazzo o strada diventi un buon punto per posizionare due pali immaginari e organizzare una partita: lo trovo un metodo straordinario per “appropriarsi” positivamente del territorio. L’idea di rivoluzione nei protagonisti del mio libro nasce proprio dal fatto di essere riusciti, per una volta, a prendere possesso di uno spazio. Una volta conquistato, la loro missione è difenderlo poiché intuiscono che la loro stessa vita non potrà esprimersi senza cittadinanza.  
 
Il tuo meridione mi ha ricordato molto il Sud western tutto tufo, arsura e sabbia di un altro pugliese, Omar Di Monopoli. Hai tratto ispirazione dalle sue opere? 
Ho apprezzato molto le opere di Omar Di Monopoli, e sicuramente il parallelismo mi rende orgoglioso, ma non ho tratto ispirazione da lui. Ho cercato di scrivere un libro in cui, smontando un castello di problemi storici e sociali, si potesse tornare agli elementi essenziali della nostra terra: il tufo, l’arsura, la sabbia, il vento… Amare la propria terra nella sua bellezza naturale non può lasciare indifferenti di fronte alle condizioni che ne determinano la deturpazione e l’abbandono (con l’emigrazione). 
 
 
Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento?
Ho dei gusti letterari abbastanza ampi ma non credo di essere all’altezza di modelli letterari. Diciamo che, se dovessi scegliere un libro che mi sarebbe piaciuto scrivere (rubandolo al genio dell’autore), questo sarebbe senz’altro 1984 di George Orwell.

I libri di Giambattista Passarelli

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