Non è esattamente il neuralizzatore che in Men in Black Will Smith e Tommy Lee Jones usavano per cancellare la memoria delle persone, ma poco ci manca. Secondo uno studio neozelandese coordinato da Maryanne Garry, docente di Psicologia della Victoria University di Wellington, farsi un selfie ha un impatto negativo sulla nostra memoria. In particolare il tentativo di apparire fotogenici e allo stesso tempo di inquadrare sapientemente lo sfondo contribuiscono alla perdita di concentrazione. Pur di scattare una foto, insomma, il soggetto perde di vista i dettagli di un quadro, di un panorama o di qualsiasi altra esperienza che proprio lo scatto vorrebbe documentare. Inoltre aver fissato un’immagine su una scheda di memoria non garantisce affatto il suo recupero e la possibilità di poter tornare ad apprezzarla tempo dopo: “le persone – spiega la prof.ssa Garry – fanno mille foto e poi le scaricano da qualche parte e in realtà non hanno il tempo di guardarle molto perché è troppo difficile etichettarle e organizzarle. Questa mi sembra una perdita”.
Il problema non riguarda solo i selfie, ma tutte le foto che durante un viaggio o un evento ci portano a sfoderare, in maniera quasi automatica, smartphone e macchine digitali. Anche in questo caso lo stress – associato alla smaterializzazione della foto – contribuisce alla perdita di memoria della propria esperienza. Lo studio di Garry è tornato così ad analizzare il rapporto tra ricordi e fotografia dopo che una ricerca simile, della Fairfield University in Connecticut, era giunta agli stessi risultati. Un gruppo di studenti, dopo aver visitato un museo, era stato invitato ad elencare i propri ricordi: le opere apparentemente ignorate – quelle che non avevano ricevuto scatti dai diretti interessati – era quelle di cui si ricordavano maggiori dettagli. La foto digitale, semplice e priva di limiti stringenti di spazio, porta ad una sovrapproduzione di immagini a discapito di una qualità che invece favorirebbe la concentrazione sull’esperienza. Detta con le parole della coordinatrice dello studio, Linda Henkel, “per ricordare – ha detto Henkel – dobbiamo accedere e interagire con le foto, e non solo accumularle”.