Zimbardo, figlio di due immigrati siciliani, concluse in poco tempo la carriera universitaria (laurea a 21 anni, magistrale a 22, dottorato a 26) fino ad arrivare, a 27 anni, ad essere professore di psicologia prima a Yale, poi a New York, quindi alla Columbia ed infine, nel 1971, alla Stanford University. Ed è qui che il professore italo-americano 41enne, idealizzò il suo esperimento: una sorta di Guardie Ladri “reali”, con ventiquatro studenti divisi casualmente (lancio di moneta) nei due ruoli (dodici e dodici) ed il seminterrato della Stanford University fu adibito a finta prigione, con tanto di sbarre, grate e via dicendo. Scopo dell’esperimento era di indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal proprio gruppo di appartenenza. Degli oltre 70 volontari che si presentarono per partecipare, furono scartati quelli con problemi psicologici, malattie, precedenti criminali ed uso di droghe. Rimasero, insomma, ragazzi cosiddetti “normali”, senza alcun tipo di problema fisico o mentale. Si stabilì una paga, 15 dollari al giorno a testa, e vennero distribuite divise, manette e manganelli (niente armi da fuoco) ai poliziotti, e spiegate le regole: comportarsi con naturalezza. L’esperimento iniziò dunque coi migliori propositi.
I dodici detenuti vennero “prelevati” da casa propria dai finti poliziotti, e portati dunque in carcere per essere “spogliati, disinfettati e rasati a zero”, prima di essere chiusi in cella. “Al prigioniero – si legge nel report dell’esperimento - veniva a questo punto consegnata un’uniforme che doveva indossare senza biancheria sotto. Davanti e dietro c’era stampato un numero identificativo. Alla caviglia destra ognuno di loro aveva sempre una pesante catena chiusa con un lucchetto. Ai piedi portava dei sandali in gomma, in testa un berretto fatto di calze femminili di nylon”. Il primo giorno fu tutto sommato tranquillo, con entrambi gli “schieramenti” che consideravano l’esperimento poco più che un gioco. I problemi iniziarono già al secondo giorno. “Essendo le prime 24 ore trascorse senza nessun incidente, fummo sorpresi dalla rivolta scoppiata la mattina del secondo giorno. Eravamo del tutto impreparati ad un simile evento”, spiega ancora il report. I prigionieri, infatti, erano probabilmente ancora fermi all’idea del “gioco”, e sbeffeggiarono a più riprese i poliziotti, proprio come si fa tra amici in un gioco di ruolo. Si strapparono i numeri identificativi, iniziarono a battere i pugni contro le porte. La reazione delle guardie, il cui unico compito era di far “rispettare” l’ordine a qualunque costo (ma senza ricorrere ai pestaggi indiscriminati) fu nel contempo semplice e brutale: furono spruzzati gli estintori sui “rivoltosi”, che furono quindi denudati ed alcuni messi in isolamento a turno. Fu a quel punto che nacquero i primi risultati dell’esperimento: le guardie si erano, istintivamente, coalizzate ed iniziare a diventare paranoiche nei confronti dei prigionieri. Contemporaneamente questi ultimi, vedendo il dispari trattamento, iniziarono a disgregarsi e a sospettare a loro volta gli altri di essere spie.
Il terzo giorno uno dei detenuti “iniziò a manifestare disturbi emotivi acuti, pensiero disorganizzato, pianto incontrollato e accessi d’ira”. Era il primo segnale dei segni di squilibrio mentale che di lì a poco presero tutti i detenuti. Ma anche le guardie non se la passarono bene. Totalmente calate nel contesto della paranoia, ipotizzarono un’evasione di massa per il quarto giorno che però non avvenne: ma ciò nonostante, avevano passato la notte a studiare come reagire di fronte a quella possibilità. I giorni successivi la tensione rimase altissima. I prigionieri e le guardie non riuscivano a distinguere la realtà dall’esperimento: i primi perfino ad un prete (vero) in visita, si presentarono col numero di identificazione. Le guardie inventano diversi sistemi basati su flessioni notturne, punizioni come pulire il wc a mani nude, e via dicendo. I prigionieri diventavano sempre più succubi delle guardie, e viceversa. Anche le guardie, a lungo andare, si erano assuefatte a quei metodi ed erano quasi costretti inconsciamente ad inventarne di nuovi per non impazzire. Fin quando, uno dei prigionieri, iniziò lo sciopero della fame per essere rilasciato. E avrebbe, concretamente, potuto ottenerlo. Ma le guardie chiesero agli altri detenuti una sorta di scambio: il rilascio del prigioniero in cambio delle loro coperte. Se si fossero rifiutati, il prigioniero sarebbe stato portato in isolamento. Rifiutarono. Era solo il quinto giorno.
Il sesto giorno, l’esperimento fu annullato in seguito ad una scoperta ancora più macabra: le registrazioni video mostrarono che le guardie, ormai in preda al delirio, irrompevano nelle celle di notte (quanto l’esperimento si considerava “sospeso” in una sorta di tregua notturna) e sottoponevano i detenuti a violenze anche di carattere sessuale. Era chiaro che non si sarebbe mai potuti giungere a due settimane, e così dopo solo sei giorni l’esperimento fu annullato. Il prigioniero che era in sciopero della fame per il suo rilascio, dichiarò due mesi dopo in un’intervista: “Cominciai a rendermi conto che stavo perdendo la mia identità, che la persona che chiamavo Clay, la persona che mi condusse in questo posto, la persona che si offrì volontaria per entrare in questo carcere – perché per me era un carcere e lo è ancora – era lontana da me, così lontana che alla fine non aveva più nulla a che fare con me, io ero il 416. Ero il mio numero. Non lo considero un esperimento o una simulazione ma una prigione gestita da psicologi invece che dallo stato”.
Ed Abu Ghraib? Le foto dell’esperimento di Zimbardo risultano essere drammaticamente simili a quelle scattate dai militari statunitensi nel carcere iracheno durante le loro sevizie. Non a caso, la difesa di quei militari al processo, nominò come perito proprio il professor Zimbardo, che scrisse poi nel suo libro “Effetto Lucifero” riguardo quelle foto nel carcere iracheno: “In gioco non è tanto l'indole di questi militari, quanto l'appartenenza al sistema esercito inviato per una giusta causa (contro il terrorismo), in una situazione che nella fattispecie è guerra. Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo de-umanizzi, che lo riduca a cosa, in modo che non appaia più come suo simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita. Chiunque fra noi è portato a compiere i crimini più orrendi in una determinata situazione e in un determinato contesto”.
Vale a dire, la dimostrazione della teoria della de-inviduzione che sostiene che “gli individui di un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali”. E le sue, drammatiche, conseguenze in un contesto di guerra, anche quarant’anni dopo la “sperimentazione”.
Per approfondire:
- Il report completo dell’esperimento carcerario di Stanford con immagini e video.
- Il sito del professor Philip Zimbardo.