Poliziotti, Vigili del Fuoco e Soccorritori non sono quasi mai psicologi. Così la Polizia si è rivolta alla Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, Università di Roma, che può supportare attraverso le esperienze drammatiche, vissute da poliziotti e vittime, la realizzazione di una rete di aiuto più autentica e consapevole.
Il progetto si affianca a quello Ania Cares - che dovrà a partire dal 2016 attivare una rete di psicologi a livello nazionale che supporti sopravvissuti e parenti di vittime in incidenti stradali.
Già, ma “come prepararsi – spiegano alla polizia – a suonare un campanello che cambierà, in un attimo e per sempre, la vita di una famiglia a cui viene portata la notizia di un incidente mortale? Come aiutare un genitore che non riesce neanche a riconoscere il corpo di un figlio tanto grande è il dolore che sta provando? Come gestire il senso di colpa del familiare di chi ha deciso di suicidarsi gettandosi sotto ad un treno? Come alleviare la solitudine delle vittime mantenendo con loro un rapporto che le tenga informate dell’evoluzione (anche giudiziaria) della vicenda dopo l’evento tragico?
Risposte difficili a cui prova a rispondere proprio il progetto Chirone (a proposito, il nome arriva dalla mitologia greca, è il Centauro più saggio e compassionevole, medico ed educatore, sempre pronto a soccorrere il prossimo anche a rischio della propria vita). Abbiamo parlato di rivoluzione. E il termine si riferisce proprio a cambiare quello che spesso di è fatto in passato, quando si pensava che l’attenzione del poliziotto si dovesse concentrare solo sul colpevole e che la vittima dovesse essere gestita esclusivamente da assistenti sociali e psicologi. Ora no: il poliziotto cambia in un certo senso ruolo, anche perché è la prima persona che la vittima incontra e la qualità del suo intervento ha un’importanza decisiva per evitare la cosiddetta “vittimizzazione secondaria” (cioè l’esposizione ad esperienze che amplificano le conseguenze tragiche di quanto è già accaduto), “per guadagnarne la fiducia – come spiegano gli psicologi dell’Università – e la collaborazione, fondamentali nella ricostruzione dell’evento, e per contenere il senso d’insicurezza provocato dalle morti violente in tutta la comunità coinvolta”.
In realtà il poliziotto già adesso svolge questa funzione, ovvio. Ma questa (bella) iniziativa riesce a dare dignità e cultura ad un lavoro svolto spesso in silenzio. E poi aiuta l’agente a conoscere “il ventaglio di emozioni – sempre per usare termini scientifici degli psicologi – che il contatto improvviso con la morte provoca nel sopravvissuto all’incidente o nel familiare della persona deceduta: paura, pianto, stordimento fino allo shock e al congelamento delle emozioni, perdita di controllo, rabbia, aggressività, senso di colpa, vergogna, negazione. E il poliziotto deve saper proteggere, ascoltare, informare, sempre conscio che il suo comportamento è decisivo per aiutare la vittima a riprendere il controllo e, successivamente, ad elaborare il lutto”.
La formazione si sa, è tutto. E non solo negli incidenti stradali. Ma un buon approccio con la vittima spesso è anche un modo per sostenere lo stessopoliziotto che si trova a gestire situazioni così drammatiche che lo possono “spezzare”, sia nella sua vita professionale che privata. Una sorta di Giano bifronte dell’assistenza post incidente, per dirla con la mitologia chiamata in causa dal progetto Chirone.