La complicità terapeutica all’inizio della psicanalisi
Abbiamo voluto dare a questa rubrica un titolo più lieve, allusivo, chiamandola Luci e ombre e non Cinema e psicologia; di fatto, la lettura filmica vuole essere uno sguardo psicologico sulle narrazioni, accontentandoci spesso di una lettura più esistenziale, e non troppo settoriale, che tenti di raggiungere il cuore delle narrazioni. I film con dichiarato contenuto psicologico però hanno pieno diritto di occupare la rubrica e ogni tanto ce ne ricordiamo. Cominciamo con questo di Carlo Lizzani, che di ombre ce ne racconta davvero tante!
Il protagonista maschile non viene mai chiamato con il suo cognome; ma è un medico che lavora nella clinica svizzera in cui è ambientata la vicenda, si chiama Gustav. Non ci sono dubbi: è lui, è Carl Gustav Jung (Julian Sands).
La protagonista femminile, invece, è la signora Emilia Schmidt (Giuliana De Sio), un’italiana dell’alta borghesia che ora vive a Zurigo. Jung ha curato realmente una paziente italiana all’inizio della sua carriera e ne parla in Ricordi, sogni riflessioni, la sua autobiografia, di cui il film è una libera interpretazione.
“Gli anni trascorsi a Burgholzli furono anni di tirocinio. I miei interessi e le ricerche erano dominati dallo scottante problema: che accade realmente nei malati di mente? Era qualcosa che allora non riuscivo ancora a capire, e nessuno dei miei colleghi si era mai tormentato circa tale problema. Gli insegnanti di psichiatria si interessavano non di quel che il paziente potesse avere da dire, ma piuttosto della diagnosi, dell’analisi dei sintomi, di statistiche”.
La diagnosi di Emilia è molto pesante: schizofrenia. Nel film si vede come sia sottoposta a tutti gli esami possibili, quelli dei riflessi (che lei, insofferente, cerca di boicottare), quelli sull’isteria ed altri che oggi non possiamo capire.
“La psicologia del malato mentale non aveva nessuna parte da adempiere. A questo punto Freud fu per me di vitale importanza. Le sue concezioni mi indicavano la via ad ulteriori indagini e alla comprensione dei casi individuali”. Il giovane Jung, infatti, non si interessa in modo passionale solo ad Emilia, mentre il dottor Brokner (primario della clinica) gli dice ironico di andare a Vienna se vuole fare ricerca. Lo vediamo regalare il suo tempo ad Annette (Milena Vukotic), una paziente che non parla ma ripete ossessivamente lo stesso gesto. Lui le si rivolge con affetto e con dolcezza riesce a comunicare con lei, ad aprire un varco, se pure momentaneo, con il mondo chiuso della malattia.
Di Emilia, invece, racconta: “Ricordo ancora benissimo un caso che a quel tempo mi interessò tantissimo. Una giovane donna era stata ammessa all’ospedale, nel mio reparto, con la diagnosi di melancolia……….il caso mi colpiva per la sua stranezza; avevo l’impressione che si trattasse di un comune stato di depressione: risolsi di esaminare la paziente con metodi miei. In tal modo riuscii a far luce sul suo passato; ottenni informazioni direttamente, per così dire, dal suo inconscio e tali informazioni rivelarono una storia oscura e tragica”.
È così tremendo il trauma che Emilia deve nascondere a se stessa, e così carico di sensi di colpa, che non può non manifestarsi attraverso dei sintomi fisici e nervosi, e sono quelli femminili allora più frequenti, la rabbia, l’isteria, il rifiuto del cibo, del dialogo, del sonno. Jung, accantonato il metodo ipnotico, tenta approcci freudiani come le associazioni libere, il dialogo, il rispetto nei confronti della malattia e di chi ne è portatrice.
Cerca di stabilire fin da subito una complicità terapeutica, che possa farla uscire dall’isolamento, che possa creare fiducia, affidamento. Quando lei si risente per una domanda personale, lui risponde “Non mi ricordo perché gliel’ho fatta”, quasi a dire che anche il medico ha le sue dimenticanze; e poi aggiunge: “Quando mi ricordo perché gliel’ho chiesto, glielo dirò”. E mentre indaga nella sua vita, non esita a patteggiare, quasi a voler offrire una relazione paritaria: “Se lei mi parla di Enrico io le parlerò della mia fidanzata”. Peccato che quando contatta la sua emozione, Emilia ha subito dopo una crisi nervosa. Il rapporto, comunque, tra il rifiuto e l’accettazione, si fa sempre più intenso e deve per forza scontrarsi con le convenzioni sociali dell’epoca.
Guarirà Emilia con le attenzioni di Gustav, con la sua delicatezza, con il suo interesse così disinteressato? Guarire è una pretesa troppo alta per qualunque tipo di malattia mentale. Ma riuscire a contattare la sofferenza e smettere di negarla è il primo passo per un vero processo trasformativo. Il film finisce in maniera aperta, anche alla speranza, con la macchina da presa fissa sul volto di Emilia che si allontana in carrozza, incorniciato dall’ovale del finestrino. E’ un viso molto triste, ma che, finalmente, può permettersi di piangere, grazie all’aiuto di chi è riuscito a sfidare le idee psichiatriche allora dominanti.
Cattiva ha il merito di raccontare in maniera molto chiara un momento di svolta per la storia della psicologia; è anche abbastanza coinvolgente, onesto, come onesta è stata tutta la produzione di Carlo Lizzani, forse tra i maestri del cinema italiano, il meno appariscente e per questo, a torto, il meno celebrato.
Margherita Fratantonio
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